Per tale fine l’uomo faber – dal suo stadio primitivo – ha sempre impiegato materiali
“stabili” disponibili in loco alternandoli, costipandoli, stratificandoli, distanziandoli spesso
fra loro per consentire anche una “sana” ventilazione capace di allontanare l’umidità
dal piano di calpestio; a una certa data – molto vicina a noi – è arrivato l’impasto fluido
e livellante del calcestruzzo di cemento che ha messo “fuori mercato” materiali
e magisteri esecutivi plurisecolari, evoluti lentamente e collaudati dal tempo; insieme
agli apporti positivi dell’amalgama a base cementizia non sono mancati anche problemi
di “compatibilità” (in relazione alle caratteristiche chimiche del legante o dei modi, spesso,
poco attenti e accelerati di esecuzione) rispetto ai materiali tradizionali – laterizio, pietra,
legno – destinati alla realizzazione dello strato architettonico di superficie.
Di ben altra natura risulta lo “strato ultimo” – superficie ambivalente: ottica, in quanto
soggetta alla fruizione visiva, e prestazionale-funzionale in quanto destinata a consentire
una lunga durata e un buon calpestio – risolto, generalmente, a mezzo di elementi
materici e artifici tecnico-compositivi che prevendono, a volte, il compattamento
di malte e scaglie “informi” o l’accostamento di minute tessere quadrate, altre dispositivi
di tassellazione geometrica o figurativa a mezzo di formati lastriformi di piccole, medie
o grandi dimensioni.
Incessantemente l’uomo faber, attraverso infinite varianti architettoniche, ha lavorato
in direzione della suddivisione-ricomposizione geometrica delle superfici pavimentali
da sottoporre alla visione.
Vi è chi ha visto nella modularità muraria – con le sue varie articolazioni geometriche
di concatenamento sia regolari che irregolari – i motivi d’origine delle redazioni
pavimentali riguardate come disegni di pareti ribaltate e proiettate sul piano orizzontale;
in realtà, i minori vincoli costruttivi delle super
fici di calpestio hanno sempre concesso
di spingere la ricerca oltre la vincolante logica stereotomica; e questo sin dalle origini.
Più che ai dispositivi murari, bisogna forse rivolgersi alla varietas della Natura – nella
molteplicità di assetti ed elementi costituitivi quali gli acciottolati dei mari e dei fiumi, le
radure, le rocce, le terre, gli arenili, i campi coltivati e i prati animati da fiori multicolori ecc. –
come la realtà capace di offrire una serie ampia e differenziata di spunti, di suggestioni,
da tradurre e sviluppare all’interno del processo di figurazione del piano di calpestio.
Da un punto di vista architettonico il carattere più autentico delle pavimentazioni
– soprattutto di quelle d’interni – risiede nella loro essenza di superfici continue fruite,
visivamente, attraverso una visione prospettica con direzionalità alto-basso (mai inversa);
tali superfici – comunemente – si percorrono, si attraversano distrattamente, ma spesso
su di esse ci si ferma per fruire dei loro disegni, della loro essenza colorico-materica
che – insieme – solidificano lo spazio dell’architettura al loro perimetro; su di esse – con
rinnovato rito fondativo per ogni generazione – si collocano gli oggetti dell’esistenza
individuale o di quella pubblica, sociale, rituale.
In particolare i pavimenti d’interni – diversamente da quelli d’esterni che hanno sempre
una pendenza (per la necessità di allontanamento ed evacuazione delle acque meteoriche),
se non addirittura dislivelli, salti di quota, risolti a mezzo di gradini, rampe che ne articolano,
ne variano potenzialmente il racconto in chiave tridimensionale – mettono in scena un
mondo spaziale “piatto”, limitato e racchiuso; si presentano privi di ogni spessore, di ogni
discontinuità: esibiscono, in sostanza, un mondo a due dimensioni, abitato unicamente
da linee e da figure geometriche piane.
Dopo la fase primordiale, arcaica – in cui il pavimento è semplice e rude battuto di terra
e, poi, schematico assemblaggio di pietre sommariamente regolarizzate – troviamo
subito le linee “rette”, poste a mettere ordine e conferire disegno alle scritture pavimentali,
intersecandosi perfettamente in ortogonalità attraverso tessiture e reti variegate
di quadrati e/o rettangoli.
Non tarderanno, comunque, a far capolino sulle superfici pavimentali figure geometriche
meno convenzionali escluse, in genere, dalle strutture stereometriche dell’architettura:
triangoli, rombi, pentagoni, esagoni, poligoni d’ogni genere e colore; figure di vario ordine,
grado dimensionale e d’ampia componibilità reciproca.
Né le linee curve – indirizzate, più virtuosisticamente, a definire disegni e tracciati particolari
attraverso il dispiegamento di cerchi, ovali, ellissi – rimarranno escluse da questo
“mondo piatto” ma di forte variazione e sperimentazione formale. Chiaramente queste
figurazioni complesse rimarranno lungamente – e fino a oggi – appannaggio di redazioni
elitarie all’interno di abitazioni lussuose, palazzi, regge, chiese assumendo lo status di
un’aristocrazia pavimentale, capace di esprimere il livello esecutivo più alto e raffinato.
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Pavimento di domus
(II sec. d. C) in opus
signinum con motivo
a cerchi concentrici.
Paestum Insulae
Domus floor
(2
nd
century AD)
in opus signinum with
concentric circles motif.
Paestum Insulae
eye, destined to solve the technical problem.
For this purpose, the “faber man” – from his
primitive stage – has always used “stable”
materials available on site, alternating them,
compacting them, layering them, often
spaced out to allow “healthy” ventilation
capable of removing moisture from the
floor; at a certain date – not long ago –
came the fluid and leveling mixture of
cement concrete that has made obsolete
materials and centuries-old executive
magisterium, evolved slowly and tested by
time; together with the positive contributions
of the cement-based amalgam, there were
also problems of “compatibility” (in relation
to the chemical characteristics of the
binder or the often careless and accelerated
methods of execution) with respect to
traditional materials – brick, stone, wood –
used to create the architectural surface layer.
Of a very different nature is the “last layer”
– ambivalent surfaces: optical, as it is
subject to visual fruition, and performance-
functional, as it is destined to allow a long
duration and be good to tread on – solved,
generally, by means of material elements
and technical-compositive artifices that
foresee, sometimes, the compaction
of mortars and “shapeless” flakes or the
juxtaposition of small square tiles, other
devices of geometric or figurative
tessellation by means of small, medium
or large size slabs.
Unceasingly the “faber man”, through infinite
architectural variants, worked in the direction
of the geometric subdivision-recomposition
of the floor surfaces to be viewed.
There are those who have seen in the
modularity of the walls – with its various
geometrical articulations of both regular and
irregular interlinking – the reasons of origin
of the floor layouts concerned as drawings
of walls overturned and projected onto
the horizontal plane; in reality, the fewer
construction constraints of the trampling
surfaces have always allowed to push
research beyond the binding stereotomic
logic; and this since the beginning. Rather
than wall devices, it is perhaps necessary
to turn to the variety of Nature – in the
multiplicity of structures and constitutive
elements such as cobblestones of the seas
and rivers, clearings, rocks, soils, sandy shores,
cultivated fields and meadows animated
by multicolored flowers, etc. – as the reality
able to offer a wide and differentiated series
of hints, suggestions, to be translated and
developed within the process of figuration
of the trampling plan.
From an architectural point of view, the
most authentic character of the flooring
– especially interior flooring – lies in its
essence of continuous surfaces enjoyed,
visually, through a perspective vision with
high-low directionality (never the inverse);
these surfaces – commonly – are traveled